Il silenzio sul significato del voto del
4 dicembre e qualche “amenità”
Sono certo che molti
avranno notato con quale celerità il referendum sulla riforma del Senato, è
stato “archiviato”.
Pochi giorni di commenti
subito dopo il voto e poi non se ne è parlato più. Singolare!
Sia ben chiaro. Io non
intendo riprendere l’ampia discussione che c’è stata sul SI e sul NO; quella,
sì, è ormai archiviata ed è inutile tornarci sopra; anzi, sarebbe forse
dannoso, in qualche modo, perché manterrebbe in vita senza ragione quella
divisività che è stata la principale caratteristica del progetto di riforma
costituzionale.
Io mi riferisco invece
alla riflessione sul significato complessivo del voto espresso dagli italiani.
Quella, se c’è stata, è
finita troppo presto.
Credo che almeno su tale
aspetto (quello del significato) qualche riflessione avrebbe dovuto essere
approfondita; e dico subito il perché.
A mio parere, quel voto
ci ha detto, prima di tutto, che i cittadini non vogliono essere soggetti
passivi su un tema che li riguarda direttamente.
E sono corsi alle urne,
con una presenza che da molto tempo non si verificava, né sui referendum, né sulle
consultazioni elettorali.
Questa volontà di
partecipazione avrebbe dovuto essere colta, come uno dei fatti più importanti
dell’anno 2016, proprio perché la partecipazione – l’ho detto mille volte – è
il sale della democrazia; dunque la “novità” avrebbe dovuto essere salutata
non solo positivamente, ma anche con una riflessione sulle ragioni della svolta
e su ciò che occorre fare per renderla permanente.
Perché di partecipazione
abbiamo davvero bisogno, proprio per rinforzare la nostra democrazia e per
restituire ai cittadini quella “sovranità popolare” che per molto tempo essi
stessi hanno finito per non esercitare o per esercitare solo in parte. Invece,
di questo, nei tanti bilanci, positivi e/o negativi, apparsi sulla stampa, poco
o nulla è emerso, quasi che ci fosse una voglia sotterranea e segreta di non
parlare più di questo incidente della riforma del Senato, finita male per i
promotori.
Ma accanto a questo
aspetto, ce ne sarebbero stati altri, meritevoli di segnalazione e di
riflessione.
E’ la seconda volta, nel
giro di pochi anni, che una riforma costituzionale “grandiosa”, sostenuta dal
Governo in carica, è stata bloccata dal voto.
Questo non può non
esprimere un messaggio molto chiaro, di attenzione: la Costituzione va
rispettata, può essere modificata, ma con coerenza rispetto alle sue linee di
fondo, che restano tuttora validissime; una specie di “altolà” dei cittadini
ai tentativi troppo spericolati di procedere non a qualche “revisione” della
Carta (come dice espressamente l’art. 138 della Costituzione), ma a modifiche
fortemente incisive sulle stesse garanzie del sistema tracciato dai
Costituenti.
Insomma, una sorta di
ammonimento dei cittadini a chi, nel futuro, avesse ancora voglia di mettere
mano a riforme non corrispondenti a quel concetto di “revisione”, chiaramente
espresso dalla Carta.
Ma ancora: si è poco
approfondita l’opinione pubblicata - il 18 dicembre su “Repubblica” - e
formulata, col suo solito stile pacato ma fermo e dotato di estrema precisione,
del Prof. Alessandro Pace, della quale basta qui richiamare il titolo, che è
di per sé altamente significativo, “Basta con le mega riforme costituzionali”.
Ha ragione, infatti, il prof. Pace, a sottolineare che nessuna mega-riforma dal
contenuto disomogeneo ha mai avuto successo nel nostro Paese. I tentativi sono
stati molti e tutti sono falliti. Non è materia di riflessione, questa e di
serio ammonimento per l’avvenire?
Ma tant’è; si è
preferito parlare d’altro, anche di cose buone o cattive (piuttosto
predominanti, queste ultime) che sono avvenute nel 2016.
E invece, questi segnali
sono importanti e indicatori di una volontà popolare, che va rispettata; noi
saremo sul campo, pronti a ricordarli ogni volta che potrà venire in mente a
qualche spericolato di tornare sulla linea dei precedenti tentativi falliti.
Non posso che concludere
queste note ricordando una vera e propria “amenità” (si fa per dire) che
abbiamo letto in uno dei tanti “bilanci”, questa volta redatto per “voci”.
Nella pagina dedicata al “peggio” del 2016, Pierluigi Battista ha inserito una voce,
“partigiani” che lascia trasecolati.
Secondo l’autore, il 2016
è stato un anno “pazzotico” in cui si è imbastita una interminabile
discussione su chi siano i “veri” partigiani; e qui sta il primo equivoco.
Non abbiamo avuto notizia
di una discussione del genere e tanto meno ci siamo accorti che fosse
interminabile. Ma in più c’è il fatto che una discussione richiede più
partecipanti, altrimenti è un monologo.
Nel caso di specie, c’è
stata un’improvvida affermazione di una componente del Governo, sulla quale era
impossibile aprire una discussione, ma si poteva fornire, al più, come è
avvenuto, qualche ironica risposta o una denuncia di cattivo gusto quando essa
è stata completata dalla presentazione di una sfilata di partigiani “veri”
che, naturalmente, votavano per il SI.
Poi più nulla, perché
sul ridicolo non si discute, ma – a seconda del carattere di ognuno – si ride o
ci si arrabbia. Tutto qui. Poi il giornalista prosegue, specificando meglio il
suo vero obiettivo, cioè coloro che “parlano a nome dell’ANPI e sono nati
molti anni dopo la fine della Resistenza” e dovrebbero tacere – dice l’autore –
e lasciare la parola ai partigiani che hanno fatto i partigiani.
Ora c’è da dire che “parlare
a nome dell’ANPI” non significa affatto parlare dei partigiani, ma di un’Associazione
che è stata fino al 2006 composta solo da combattenti per la libertà e da
allora, con una modifica statutaria approvata anche dagli organismi di
controllo, ha ammesso anche gli “antifascisti” che si riconoscono nelle
finalità e nei valori dell’Associazione.
Da allora, anche se
qualcuno non se ne è accorto, nell’ANPI sono entrati tanti giovani e tante
donne, e tanti di una vera e propria generazione pacificamente successiva al
periodo della Resistenza.
Tra i partigiani e gli
antifascisti si è creato un amalgama straordinario, che ha assicurato la “continuità”
dei valori della Resistenza e della Costituzione, cui questa Associazione si è
sempre ispirata.
Se oggi il numero degli
iscritti supera le 124.000 unità, questo è proprio perché quell’amalgama si
è costituito nel tempo ed ha perfettamente funzionato; e ai nostri successori
affideremo, come lascito, quella “continuità” che è il bene e la
caratteristica fondamentale dell’ANPI.
Spero, così, di aver
spiegato chiaramente, anche a chi non sa, come stanno realmente le cose. Ciò
che ci colpisce particolarmente, però, è che questa voce “Partigiani” sia
stata inserita nel “peggio” del 2016, cioè accanto a Aleppo, Colonia, Erdogan,
Odio, Zoticoni, Squadristi, Bambolotti, etc”.
Ci vuole una bella dose
non dico di mancanza di rispetto, ma addirittura di disinvoltura per creare
simili paragoni, che sono comunque offensivi non solo se riferiti ai “partigiani”,
ma anche a quelli che tali non sono stati, ma che oggi appartengono a pieno
titolo ad una Associazione come l’ANPI, a sua volta degna almeno di rispetto,
reale e non solo formale.
Potrei aggiungere anche
che nessuno ha parlato “a nome” dell’ANPI, anche se era riconoscibile la sua
appartenenza; ma forse non vale neppure la pena di soffermarsi ulteriormente
sul tema.
A presto Cara Terra Mia